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Lavoro ed istruzione. I mondi paralleli s'incontrano

Qualche giorno fa è accaduta una cosa che mi pare non abbia avuto un ampio riscontro. Poichè a me pare che questa cosa sia particolarmente importante, se non addirittura decisiva per capire il futuro di questo paese, decido di spenderci qualche riflessione domenicale.

Dunque che è accaduto? Che la Fiat, la più grande ed importante e significativa azienda italiana, ha duplicato il suo ricatto occupazionale. Ciò che è stato imposto a Pomigliano, sulla base del finto alibi dell'unicità della situazione, ossia un contratto dal quale sono scomparse tutte quelle tutele storiche conquistate a suon di lotte e sacrifici da parte dei lavoratori, è stato riproposto anche a Mirafiori.



Se volete lavorare. Se volete che la Fiat investa tanti bei soldini in questa fabbrica. Dovete accettare le nostre condizioni. Assolutamente peggiorative rispetto al contratto nazionale. Prendere o lasciare. I sindacati hanno lasciato, per ora, il tavolo delle trattative. La novità è che, rispetto a Pomigliano, stavolta non solo la Fiom-Cgil ha detto no. Anche le sigle dei sindacati tradizionalmente di regime, quelli embedded, si sono alzate e se ne sono andate. Sarebbe interessante capire perchè Pomigliano si e Mirafiori no, ma questo ci porterebbe troppo lontani, e troppo in basso, rispetto al discorso che mi interessa sviluppare con voi. Che invece è, e non poco, assai alto. Un tentativo di osservare lo sviluppo possibile non solo del nostro paese, ma della civiltà occidentale nel suo insieme.

Accanto all'episodio di Mirafiori, in settimana mi è capitato di ascoltare un grande esperto economico nazionale. Il quale, ragionando sulle dinamiche di sviluppo della nostra società, ha affermato quanto segue. Che, in pratica, l'Italia in particolare e l'occidente in generale debbono assai presto cambiare strategia. Perchè la produzione di oggetti, di cose, di prodotti si è massicciamente spostata in altre aree del mondo. Che sono capaci di produrre cose simili, se non proprio le stesse, attraverso anche il meccanismo della delocalizzazione, a costi più bassi.

L'Europa e l'occidente non sono più il centro del mondo. Non siamo più noi a trainare l'economia del globo. Perchè non possiamo competere quantitativamente con paesi quali la Cina, o l'India, od il recentissimo Brasile, che comincia ad esportare massicciamente anche manufatti industriali, oltre che campioni di football.

Dunque, ha affermato questo esperto, a noi non rimangono che due scelte. O troviamo il modo di produrre, materialmente, molto di più. E recuperiamo, almeno in parte, l'enorme divario che si è venuto a creare nei numeri della produzione di merci. Oppure puntiamo decisamente ad altro. E cioè non alla quantità, ma alla qualità dei prodotti. Ed accettiamo di aver perso la battaglia dei numeri, sapendo che possiamo vincere invece quella della qualità, dell'innovazione, della creatività, della tecnologia, della ricerca.

L'esperto ha concluso affermando che, se continueremo a non indirizzare in modo inequivocabile le nostre politiche in un senso o nell'altro, attraverso un progetto serio e meditato del nostro futuro, la prospettiva reale è quella di un complessivo ridimensionamento dei livelli di vita in tutto il mondo occidentale. La qualità della nostra vita si abbasserà realmente. Potremo davvero consumare molto molto meno rispetto a ciò cui siamo abituati oggi.

Quando all'esperto è stato chiesto su quali dei due indirizzi possibili occorrerebbe puntare, non ha avuto alcuna esitazione. Sono la qualità e l'innovazione che potranno salvarci. Pur nella mia semplice veste di comune cittadino, anche io penso la stessa cosa. Non è coi numeri, ma con la specializzazione qualitativa, creativa e tecnologica che potremo vincere le sfide del futuro.

Ma, purtroppo, pur nella difficoltà di rintracciare un progetto di sviluppo per questo paese, frastornati come siamo da un regime profondamente dequalificato ed impreparato, nel quale i ruoli più importanti sono occupati da personaggi di etica e morale dubbia, privi di capacità politiche e progettuali, ciò che s'intravede, tra un festino e l'altro, non va nella giusta direzione.

C'è stato un momento, una quindicina d'anni fa, in cui il mondo occidentale si è trovato di fronte ad un bivio. O premere sull'universo cinese (che assumo come valore di riferimento) affinchè diventasse una democrazia. E si avviasse all'opportuno riconoscimento di quei diritti dei lavoratori e di quel welfare sul quale l'occidente ha costruito il suo primato. Oppure subire la tentazione cinese della riduzione di quei diritti e di quel welfare nello stesso mondo occidentale. Insomma, detto in parole semplici. O portare l'occidente in Cina. O portare la Cina in occidente.

Ora sappiamo, e vediamo con profonda amarezza, che la strada intrapresa è stata quella sbagliata. L'occidente si è lasciato sedurre dalla possibilità di imporre, alle proprie classi lavoratrici, una riduzione dei livelli di benessere e di welfare sulla base dell'alibi cinese. Dobbiamo competere numericamente con la produzione di paesi che trattano orribilmente i propri lavoratori. Dunque, per poterlo fare, dobbiamo anche noi abbassare i livelli di contrattazione. Meno ferie. Meno pause. Meno garanzie. Meno salari. Più produzione.

Stiamo così assistendo ad una progressiva cinesizzazione del mercato del lavoro occidentale, piuttosto che all'occidentalizzazione del mondo del lavoro cinese. Questo processo, davvero epocale, ha ricominciato a produrre quelle tensioni sociali che credevamo appartenere al passato.

La guerra sociale delle classi lavoratrici, e degli studenti, non è più indirizzata ad aumentare e migliorare i diritti, le opportunità e le condizioni, ma solo ed esclusivamente al tentativo disperato di conservare, mantenere quei diritti e quelle codizioni che hanno accompagnato il nostro sviluppo.

Non è un caso che, qui da noi, il regime berlusconista tenti di diffondere l'idea che ha fatto, o sta facendo, le grandi riforme che servono al paese. E, in un incredibile e buffonesco rovesciamento delle parti, accusi le opposizioni di essere conservatrici rispetto ai cambiamenti attuati o proposti dal regime delle destre.

Proprio in questi giorni, ad esempio, l'impalpabile signorina Gelmini MariaStella, firmataria ombra dell'ennesima controriforma scolastica, accusa gli oppositori di voler mantenere il vecchio sistema delle baronie universitarie, contro il nuovo della riforma. Si è creato così un cortocircuito nel quale le destre apparirebbero come innovatrici e riformatrici, mentre le sinistre sarebbero invece conservatrici e passatiste.

Si tratta, evidentemente, solo di un bluff. Sul quale il regime gioca spudoratamente grazie all'appannamento mentale operato dalle sue tv puttanesche. Perchè è ovvio che, stante una situazione iniziale uguale a zero, il cambiamento è possibile effettuarlo in due direzioni. Si può passare da zero a più uno, dunque andare in avanti. Oppure è possibile passare da zero a meno uno, dunque andare indietro.

Tutte le cosiddette riforme del regime berlusconista sono, in realtà, controriforme. Non portano avanti. Non vanno verso il segno più. Più doveri ma anche più diritti. Più lavoro ma anche più salario. Più servizi ma anche più responsabilità. Più merito ma anche più efficienza. Al contrario. Esse portano esattamente indietro. Meno lavoro. Meno diritti. Meno salari. Meno scuola. Meno responsabilità. Meno protezioni.

Ecco che allora, per assurdo, tutti coloro che si oppongono a questa diminuzione sono accusati di immobilismo. Di voler mantenere lo status quo ante. Mentre invece è vero esattamente il contrario. Occorre piantare bene i piedi per terra contro chi vuole andare indietro. Occorre stare ben saldi per poter andare avanti o, a dire meglio, per non tornare indietro. Esattamente quello che stanno dimostrando gli studenti italiani in questi giorni. Per andare avanti occorre almeno cominciare a rimanere dove si è, perchè a seguire il regime si torna indietro. E di parecchio.

E' anche quello che sta facendo la Fiat. Con la complicità disgustosa ed aberrante dei sindacati embedded. La riforma del contratto di lavoro, chiamata elegantemente disdetta, altro non è che l'ennesima riforma all'indietro, ossia una controriforma, di una classe padronale alla quale non pare vero di poter riportare indietro l'orologio della storia.

Tutto questo andare indietro ha una meta. Quella famosa asianizzazione, terzomondizzazione della civiltà occidentale. Dovremmo puntare sulla qualità. Che significa innanzitutto cultura. Innovazione. Creativita. Tecnologia. Ricerca. Tutte cose che presuppongono un fortissimo investimento sull'istruzione pubblica. Sulla ricerca universitaria. Sugl'incentivi alla valorizzazione delle nostre unicità valoriali.

Ed invece. La realtà industriale, dimostrando tutta l'incapacità e la pusillanimità che ben conosciamo, non è in grado di esprimere alcuna eccellenza nella ricerca e nell'innovazione. In quella famosa competitività che dovrebbe nascere dalla cretività. Non dalla solita, vecchia, disgustosa mano aperta a ricevere contributi e commisse statali. L'unica, grande innovazione di questa realtà industriale sta nella disdetta del contratto nazionale. Ossia nella riduzione dei diritti e delle protezioni della classe lavoratrice.

Anche l'istruzione pubblica va nella direzione opposta. Indietro e non avanti. Perchè la ricerca della qualità è possibile solo in un contesto nel quale sia realtà una istruzione pubblica di eccellenza. Che è possibile costruire solo aumentando e non diminuendo le ore di lezione. Aumentando e non diminuendo le risorse per le scuole pubbliche. Sostenendo e non deprimendo la ricerca, scientifica ma non solo, di questo paese.

Anche in questo caso l'esempio dell'Italia è particolarmente significativo e deprimente. Noi abbiamo ereditato, a dire il vero immeritatamente, un patrimonio storico ed artistico assolutamente unico. Nessun paese del globo terrestre è in grado di vantare quel lingotto d'oro straordinariamente massiccio costituito dalle nostre ricchezze paesaggistiche, artistiche, archeologiche, architettoniche. Che potrebbe essere fonte di ricchezza ancor più ampia se avessimo la capacità di valorizzarlo, conservarlo e promuoverlo nel modo opportuno.

Chi è cosciente che parte importante del proprio benessere si fonda sulla cultura, dovrebbe dare adeguata importanza alla cultura stessa. Alla civiltà che si fonda su quella stessa cultura. Ed invece. In tutti i licei sono state diminuite le ore di italiano, storia, latino e geografia. Per non parlare di storia dell'arte e musica, che sono patrimoni nazionali inesistenti altrove. Quasi scomparso persino il diritto, nonostante siamo eredi di quella civiltà romana che il diritto ha elaborato ed insegnato a tutti i popoli della terra.

E l'oltraggio definitivo sta nel fatto che, a queste diminuzioni, non ci sono stati corrispondenti aumenti di quelle materie scientifiche e pratiche, come ad esempio matematica ed inglese, che almeno a parole il regime berlusconista aveva sempre affermato di voler incrementare. Oltre al fatto, naturalmente, che non si spiega perchè mai bisognerebbe migliorare la nostra cultura scientifica di base, se poi i nostri giovani ricercatori scientifici sono obbligati ad emigrare all'estero per poter usare le brillanti menti che si ritrovano.

Alla ricchezza della cultura si lega quella del turismo, va da sè. Ma lo scempio delle incapacità è simboleggiato da un ministro della cultura che si vede letteralmente franare sotto i piedi un sito meraviglioso come Pompei, visitato da oltre 3.000.000 di persone ogni anno. Il quale ministro non solo non trova elementi sufficienti per chiedere scusa al mondo, oltre che agli italiani. Non solo non riesce neppure ad esprimere la propria dignità dimettendosi. E' perfino capace di invitare, di fronte ai crolli quotidiani, ad evitare inutili allarmismi!

Per innovare qualitativamente la nostra produzione industriale abbiamo bisogno di tecnici. Professionisti. Ingegneri. Matematici. Fisici. Chimici. Per rinfrescare la nostra creatività abbiamo bisogno di designer. Architetti. Fotografi. Musicisti. Registi. Per sostenere il nostro turismo culturale abbiamo bisogno di personale competente ed altamente professionale. Ed abbiamo bisogno di un paese che sappia valorizzare il proprio patrimonio. I giovani dovrebbero percepire il grande valore, ideale e culturale, ma anche economico, delle nostre ricchezze storiche.

E dunque. Materie tecnico-scientifiche per sostenere la ricerca e quindi la qualità innovativa dei nostri prodotti. Materie umanistiche per sostenere il patrimonio culturale e turistico più importante del mondo, fonte di grande ricchezza. In una parola. Occorrerebbe, semplicemente, più scuola. Più ore. Più materie. Più risorse per la ricerca. Più sostegno alla cultura. Le riforme scolastiche dovrebbero investire per incentivare una diversa e migliorata ristrutturazione dell'istruzione. Ma nel senso dell'aumento dell'offerta. Non della sua distruzione. Non del suo impoverimento. A tutto vantaggio del tempo inutile da passare davanti alle demenzialità della tv di regime. Capace solo di offrire culi e tette. Volgarità e bestemmie. Ed una realtà sempre addomesticata. Mistificata. Occultata.

Nessuno avrà mai tutta la storia che ci portiamo appresso noi. Nessuno avrà mai tutte le ricchezze artistiche che possiamo vantare noi. Non avrà mai accesso a quel made in Italy di successo che è fondato sul gusto. Sulla qualità. Sulla specializzazione. Sull'unicità di un prodotto creato sul connubio tra ricerca e professionalità. Arte e semplice buon gusto.

Questa sarebbe la strada da percorrere. Un nuovo modo di produrre. Una nuova cultura. Un nuovo impegno. Un nuovo progetto. Un nuovo, e reale, rilancio. Della nostra cultura. Della nostra imprenditorialità. Delle nostre capacità, che pure ci sono.

Invece. Ci ritroviamo spinti a competere con l'imbecille tirannia dei numeri. E per farlo si è disposti a portare la guerra civile nelle strade. Si pretende di tagliare lavoro, diritti, protezioni sociali, cultura, ricerca, senza che nessuno si alzi a dire di no. Si vuole riportare indietro questo paese per renderlo più simile a quello che una volta era il terzo mondo. Si vuole intraprendere una battaglia su un campo nel quale non sarà possibile vincere. Perchè un miliardo di cinesi produrranno sempre quantitativamente più di quello che potremmo mai produrre noi 60 milioni d'italiani.

Allora dovremmo farlo, signori. Dovremmo tutti metterci a riflettere un po' più seriamente su quello che ci sta girando intorno. E dovremmo pure smetterla di credere che i ragazzi che in questi giorni stanno dando così fastidio al nostro traffico già di per sè impazzito, siano solo asinoni con le orecchie lunghissime. Che non hanno voglia di studiare.

E dovremmo pure smetterla di continuare a chiederci sempre che cosa lo stato fa per noi. E che cosa noi facciamo per lo stato. Forse sarebbe il caso di cominciare a chiederci che cosa noi stiamo facendo per questi giovani.

E per il loro futuro.

[Ave]

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