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Libia. Nel deserto non ci sono gattopardi

Dunque è proprio vero. Nessuno torna dal deserto. Vivo. La parabola del fuggiasco libico, amico intimo del nostro cavaliere, è finita come sempre si son spente quelle dei peggiori tiranni. Da piazzale Loreto al bunker, il copione mostra i segni indelebili di un'immutabile umiliazione esistenziale. Uomini forti, anzi fortissimi. Che si son fatti strada a forza di stragi e massacri. Che hanno esercitato un potere assoluto ed inviolabile. Superuomini che hanno creduto di poter vivere un'esistenza al di fuori di qualsiasi regola. Oltre ogni legge umana e divina. Oltre ogni ragionevolezza. Oltre ogni, pallida, democrazia. E che alla fine, quando la storia s'è preparata a presentare il conto, si sono ritrovati mimetizzati fra i miserabili. In cerca di una fuga disperata e disonorevole. Lo presero così, fuggiasco, il nostro Mussolini. Hanno preso ugualmente così, sbandato, il rais Gheddafi.

«Se indietreggio uccidetemi», aveva tuonato il Benito nella sua retorica assassina. Ha avuto quello che s'è meritato. La sua corsa verso la Svizzera, verso la salvezza personale nel bel mezzo del tracollo del suo paese, equivalse ad una fuga dalle sue roboanti promesse. E dunque la sua morte fu un atto dovuto. Quello stesso che aveva invocato in tempi non sospetti.

«Non lascerò mai la Libia. Morirò nel mio paese», aveva più recentemente affermato, per interposta persona, il colonnellissimo Gheddafi. Detto fatto. Nel momento in cui la sua antica prosopopea ha traballato e si è trasformata in banale, umile, impensabile paura personale, anche il rais ha avuto il privilegio di realizzare il vaticinio che aveva predetto per se stesso. L'hanno ammazzato nella sua Libia. Non lascerà mai più il proprio paese.

Il potere, specialmente quando è irrazionale, violento ed assoluto, ha la caratteristica di essere assolutamente privo di fantasia. Esiste forse una morte che ancora non abbiamo visto, od immaginato, o sognato? Esiste forse un corpo martoriato che ancora non abbiamo visto sanguinare davanti i nostri occhi, oppure dalle pagine di un libro di storia? Persino nelle immagini che la storia lascerà in eredità a se stessa possiamo tristemente osservare le tracce di una ripetibilità che non ci fa onore. Perchè dimostra la nostra incapacità d'imparare dai nostri errori. Il corpo di Mussolini, massacrato dai calci e dagli sputi, somiglia terribilmente a quello del Gheddafi disteso in una specie di bara. Stesso volto sanguinante. Uguali i tratti deformanti di un'umanità che entrambi non hanno avuto mai neppure da vivi, e che nella morte si nega in tutta la sua tristissima evidenza.

Non c'è un briciolo di novità neppure nelle scene alle quali stiamo assistendo in queste ore. Zero fantasia. Il corpo martoriato, già detto. Ma anche i festeggiamenti del popolo. Gli esultanti che brindano alla morte del tiranno. Cose che abbiamo già visto. E sperimentato. Non sarà forse l'ennesimo sberleffo della storia constatare che il più acerrimo nemico dei colonialisti italiani abbia fatto la stessa, identica fine di colui che quella rapina coloniale ai danni della Libia fomentò e realizzò?

Dall'alto della nostra esperienza, proprio come italiani, saremmo mai in grado di dare i consigli giusti al popolo libico? Potremmo dare loro un indirizzo, un consiglio qualsiasi per aiutarli a non ripetere i nostri stessi errori? Noi che ci ritroviamo, ancora oggi, con creature che vanno in pellegrinaggio ad inginocchiarsi sull'icona di Mussolini?

Noi che, persino qui nella nostra piccola e provinciale ed insignificante Anagni, conosciamo esseri che si salutano col braccio teso. E che si autodefiniscono nostalgici. Irriducibili. Come se alla nostalgia non toccasse lo stesso fardello che la storia impone a tutti. Peccato originale di popolo che, vigliacco, scelse di esserlo fino in fondo.

Anche il popolo libico ripartirà da questa morte. Questa fine sarà l'alba di un nuovo inizio, certo. Ma, se possiamo permettercelo, noi italiani, di dare proprio a loro un suggerimento. Ecco. Mi piacerebbe dire di stare attenti. Di stare molto attenti. La strada che si trovano di fronte va verso il futuro, di sicuro. Ma non è una strada dritta. Amici libici voi forse ancora non le vedete. Ma presto vi ritroverete alle prese con un mucchio di curve. Giravolte. Tornanti. Ci saranno momenti in cui avrete l'impressione di tornare indietro. In altri invece avrete l'impressione di girare in circolo, e di passare e ripassare continuamente davanti lo stesso sasso.

Perchè la verità, forse, è che in questo nostro universo mai nessuno è libero di seguire la strada che preferisce. O che ritiene più comoda. Milioni di mani e spinte invisibili ti fanno spostare. Deviano il percorso che avevi progettato. E' un deragliamento continuo dal sogno. Dall'utopia. Dalla speranza. Sarà difficile non allontanarsi troppo. Complicato andare avanti riuscendo a non tornare indietro. Arduo cambiare tutto affinchè non torni tutto com'era prima.

Noi italiani ne sappiamo qualcosa, credetemi, amici libici. Ma voi avete un grande vantaggio. Voi avete il deserto.

E nel deserto, almeno questo è sicuro, non ci sono gattopardi.

[Ave]

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