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Il rumore del mondo. Benedetta Cibrario


Diciamola tutta. Se prendessi il libro della Cibrario e ve lo tirassi in testa, potrei farvi davvero male. Si parla infatti di un mattone di 756 pagine. Non proprio l'ideale da portarsi in giro. Probabilmente, in certi paesi, potrebbe persino essere considerato arma impropria. 
Ma perchè mai dovrei tirarvi in testa questo libro? Molto, ma molto meglio mettermi a leggervelo. Perchè, ecco, sono convinto che, in questo caso, conquisterei di colpo non solo la vostra attenzione, ma anche la vostra gratitudine.


La qualità migliore di questo libro, infatti, sta nella lingua. Un italiano elegante e dolce. Misuratissimo e controllatissimo. Una farfalla capace di eseguire voli senza neanche un movimento brusco. Un vocabolario talmente preciso e privo di sbavature da avvicinarsi più alla dimensione tecnico-scientifica piuttosto che ai sussulti psicopatologici dell'humanitas. La Cibrario, insomma, è una grande scrittrice. Nel senso più puro del termine. Sa scrivere, e sa farlo benissimo. Non date troppo per scontato tale competenza negli scrittori contemporanei, perchè in giro ci sono romanzi che, a (ri)pensarci, mi vengono ancora i brividi. Libri che, nonostante una ben ridotta voluminosità, risultano buoni solo come armi improprie, per l'appunto.

L'aspetto linguistico, però, non è l'unico criterio per valutare un romanzo e stabilirne il valore. In questo caso, poi, si finisce un po' nell'imbarazzo. Perchè, ecco, ad una scrittura di altissimo livello non corrisponde, purtroppo, una struttura romanzesca altrettanto valida. La storia narrata dalla Cibrario, infatti, possiede tutte le potenzialità narrative per avvincere e conquistare un lettore al quale, non dimentichiamolo, si chiede una fiducia lunga la bellezza di 756 pagine. Che è anomalia non di poco conto, di questi tempi. Ma il modo di raccontarla, questa storia, di organizzarla, di strutturarla, mostra i limiti non della scrittrice, che non ce ne sono, quanto della narratrice. Che invece ne ha più di uno.

Innanzitutto a questa storia mancano gli 'spannungen', ossia mancano i momenti decisivi. Mancano le porte che appaiono all'improvviso, durante il cammino, ed aperte le quali ci si ritrova in una landa nuova, se non sconosciuta, ed i personaggi non saranno più come li abbiamo conosciuti. In 756 pagine questa storia non è stata capace di produrre una 'resa dei conti'. E dire che, comunque, ce ne sono di eventi che potrebbero generarne molteplici. Niente da fare. Nonostante accadano cose capaci di scombussolare profondamente la vita di una persona, nessun personaggio del romanzo è capace di 'mostrare' lo scombussolamento. Come se la vita si dipanasse in una specie di enorme acquario sottoceanico, e le tempeste della superficie non fossero in grado di arrivare a turbare l'ovattata quotidianità della vita sottomarina.

La colpa (o il merito?) di tale risultato sta tutta nel linguaggio. Che è talmente perfetto, talmente pulito, talmente preciso da riuscire a contenere, nella propria perfezione, ogni sussulto dell'anima. La precisione estrema di questa lingua ha costruito, nel romanzo, una specie di confine all'interno del quale tutto si stempera e trova la sua dolcezza. Per questo, in 756 pagine, non si trova un moto di rabbia, una parola fuori posto, un grido liberatorio. Non c'è traccia neppure di quel balbettio che ci viene quando tentiamo di parlare tra le lacrime. Che è momento assai ridicolo, certo, ma anche estremamente umano, ed al quale ben pochi di noi sono riusciti a sfuggire, almeno una volta, nella propria vita.

E' vero. La protagonista del romanzo è inglese. Ed è figlia dell'alta borghesia commerciale. E sposa un rampollo della migliore (o peggiore?) tradizione aristocratica piemontese. Quindi, almeno in parte, una certa ritrosia nell'esternazione dei sentimenti e delle emozioni, che fanno tanto essere umano, è giustificata dal contesto sociale di riferimento nel quale la protagonista vive. Ma tale giustificazione non funziona del tutto. Perchè nel confronto con gli altri personaggi, nei dialoghi, nelle scene collettive può comprendersi la volontà di dissimulare un'impossibile serenità. Ma quando si rimane da soli, quando la Cibrario ci prende per mano e ci porta dietro le quinte, nelle stanze più segrete, ebbene. Allora la dissimulazione diventa inganno troppo crudele perchè possa essere perdonato dal lettore. Che si aspetterebbe di andare a vedere, finalmente, le carte in mano. Ma che si ritrova a tu per tu non solo con un personaggio, ma anche con una autrice che, le carte in mano, continuano a tenersele ben celate.

All'inizio di quel capolavoro cinematografico che è Profondo Rosso, il protagonista, il pianista Mark, sta guidando una prova tecnica col suo gruppo jazz. Al termine della prova, inizialmente, fa i complimenti alla sua band: sono stati bravi, molto bravi. Quasi perfetti. Poi aggiunge, seriamente, 'troppo perfetti'. Troppo puliti. Troppo ordinati. Questa musica, dice, va un po' 'buttata', nel senso che bisogna un po' sporcarla. Ecco. Alla Cibrario si può dire una cosa molto simile. Un po' meno perfezione, please, per favorire l'esplosione dell'emozione. Che appartiene alla nostra sfera irrazionale e passionale. Ed ha poco (o niente) a che vedere con le linde geometrie di una sintassi da manuale.

Un altro elemento che concorre a diminuire drasticamente l'empatia che dovrebbe nascere tra il lettore e la protagonista, e conferma tutti i 'rischi' di una lingua eccezionalmente perfetta, sta nelle strutture narrative scelte dalla Cibrario. I dialoghi sono merce rara. Forse perchè, se i personaggi 'parlassero' di più tra di loro, potrebbero conquistarsi un po' di quella autonomia, di quell'indipendenza che invece la Cibrario non gli vuole dare, perchè ha bisogno di tenere tutto sotto controllo. Come un tiranno particolarmente odioso: quello che reprime le emozioni.

Insomma che dire? La scrittrice c'è ed è di altissimo livello. La narratrice no. E, per un romanzo che chiede al lettore un profondo atto di fiducia, concentrato (si fa per dire) in 756 pagine, appare peccato grave.

[Ave]

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